Anche gli psicologi hanno un’anima

E alla fine questo momento è arrivato… come in quei brevissimi istanti prima di entrare in scena, in cui tutto è confuso e ovattato, dietro le quinte il soqquadro totale, sul palco un mutismo abissale, la platea in religiosa attesa. Tu non ti ricordi più la parte, non sai dove diavolo devi metterti e nelle orecchie senti solo il rumore del vortice di sangue pompato ad alta velocità dal tuo cuore. Quel vortice ti risucchia e ti ritrovi catapultato sul palco senza nemmeno sapere bene come.
Ecco che si comincia… ma c’è ancora quella frazione di secondo, quell’istante di silenzio dopo l’entrata in scena e prima dell’inizio dello spettacolo: è il momento della prima battuta… Dio mio, che voce mi uscirà?

Chissà…

Tutto è pronto, il template predisposto, i colori decisi, le immagini collocate, la presentazione inserita ed io mi ritrovo qui, sotto le luci della ribalta, a scrivere il mio primo post nel mio primo blog.

Certo è strano… noi psicologi siamo, nell’immaginario collettivo, quelli che fanno stendere il paziente sul lettino e lo fanno parlare, parlare, parlare, prendendo appunti ed al massimo facendo qualche cenno con il capo. Trovarmi io dall’altra parte, metaforicamente distesa su questo lettino a parlare di me, un po’ mi imbarazza.
Ci avevo fatto il callo quando andavo dal mio terapeuta, ma ora è diverso… E’ inusuale avere un pubblico che, silenzioso, segue la mia seduta dietro a questo schermo…
Anche voi state prendendo appunti e facendo strani cenni con la testa?

Beh… mi faccio forza e mi dico che la vita è come il teatro e in fondo il modo migliore per capire come si sta in panni diversi dai nostri è, nei limiti del possibile, indossarli.

Scrivo queste righe, parlo di me e dei miei sogni e dei miei progetti con la vaga consapevolezza di rappresentare anche altri colleghi e colleghe, le loro aspirazioni, speranze, delusioni e frustrazioni; scrivo perché chi legge possa dire magari “Ehi, è successo anche a me!”, perché ci si senta più uniti che soli e perché – ma sì dai, lo ammetto – mi piace tanto farlo.

Lo spirito da crocerossina non mi manca, non avrei scelto questo mestiere che è quasi una missione, ma è altrettanto vero che senza un pizzico di vanità esibizionista nessun masochismo, per quanto resistente e conclamato, mi avrebbe costretta a questa improba impresa.

Dopo aver trascorso anni ad arrovellarmi tra neuroni e sinapsi, inconscio e stereotipi, attaccamenti e lapsus, totem e tabù; dopo essermi trovata più volte a sentirmi chiedere che lavoro facessi ed alla risposta. “Psicologa” sentir ribattere: “Be’ in fondo è un mestiere anche quello…”, mi mancava solo di tuffarmi nel tentacolare mondo della editoria cartacea ed elettronica, divisa tra capoversi e tag, tra la scelta di rilegature e corpi di testo, di script e template… per me, fino a qualche mese fa, tutto ostrogoto.

Come tante cose della vita, questa avventura è nata per caso, nelle chiacchierate con amici-colleghi (o colleghi-amici, fate voi…), con l’emergere della necessità – sempre più evidente e sentita – di rompere un circolo vizioso, di demolire un muro di silenzi ed ipocrisia, di tagliare un laccio che a poco a poco ci sta strangolando, a causa dell’insipienza, dell’incuria o della malafede di più di qualcuno.
Per carità, nessuna velleità da Wonder Woman de’ noantri o grandi speranze di cambiare chissà che, però sapete com’è… si parla, si riparla, si discute, ci si accapiglia e ci si ritrova sempre agli stessi punti morti e contro i soliti muri di gomma… E arriva quel giorno, in cui magari sei più scazzata del solito e forse hai in circolo qualche ormone in più del dovuto. Ci si mette pure l’impiegato di banca che, con quel sorrisino idiota a metà tra la cortesia professionale e la smaccata presa in giro, ti dice che no, il fido non possono concedertelo perché il tuo non è un lavoro sicuro e non hai un reddito certo e solvibile… e con buona pace della parità sessuale ti girano anche quelli che non hai e decidi che qualcosa si deve pur fare, non tanto ma almeno qualcosa!
Ne parli in giro, raccogli adesioni, entusiasmi, storie e racconti e capisci che non è un destino cinico e baro che ti ha preso di mira ma che la tua è una condizione disgraziatamente comune, molto, troppo comune perché possa rimanere sotto silenzio.

E così nasce un libro.

Anni e anni di nottate passate a studiare sui “sacri testi” ti fanno guardare al libro come ad un oggetto ideale, perfetto, inarrivabile… lo scruti con occhi ammirati e voluttuosi, lo pensi, lo sogni. E ti convinci che mai nessuno pubblicherebbe quello che scrivete tu e i tuoi colleghi.
Poi un giorno ti accorgi che gli scaffali delle librerie pullulano di biografie di “tronisti” e “letterine” e allora scendi con i piedi per terra e ti chiedi: Beh? cosa abbiamo io ed i miei amici meno di loro?

E così pubblicano il tuo libro. Anzi, te ne pubblicano due.

Ed ora eccomi qui, a parlare direttamente con voi. A dire la mia prima battuta.

Faccio un respiro profondo… mi ripeto, come un mantra tibetano, che andrà tutto bene: hanno fatto un blog sulle “Sharmate sedotte & abbandonate”, hanno fatto un blog sulle note in condotta a scuola e sui prodigi del calcio rotante di Chuck Norris, volete che in Internet non ci sia spazio per le mie (dis)avventure di psicologa, per quelle dei miei amici e colleghi e perché no, anche per le vostre?

La frazione di secondo sta per scadere, siamo ormai agli istanti finali, il cursore nel monitor è sulla casella “publish”, il dito è sul pulsante del mouse… o la va o la spacca…

In scena!

Click.

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